Sostenibilità

Quanto spreca l’industria tessile?

Una stima dei volumi degli scarti tessili di lavorazione

Quando si affrontano le prospettive di una gestione più sostenibile dei rifiuti nella filiera della moda l’attenzione si concentra quasi sempre su due tipologie di riciclo: quello post-consumo cioè il riciclo dei materiali che recuperabili al momento del “fine vita” dei prodotti – per dirlo in modo generico “tutto ciò che gettiamo nel cestino o in discarica“ dagli abiti usati alle bottiglie di plastica alle moquettes,  fino a  ciò che vene abbandonato nell’ambiente dopo l’uso, come ad esempio le reti da pesca o i rifiuti di plastica abbandonati in mare -  e quello dell’utilizzo di scarti di lavorazione di altri settori, spesso dell’agricoltura, come le fibre ricavabili  dagli scarti della raccolta del cotone, dell’ananas, dell’uva, ecc.

 

L’interesse per queste due forme di riciclo deriva, da un lato dalla loro innovatività, richiedono infatti entrambe di sviluppare nuovi modelli di business e nuove filiere di produzione e dall’altro dalla forza e dall’immediatezza del messaggio contro lo spreco che sanno trasmettere. 

 

Esiste tuttavia un'altra dimensione del riciclo che può generare l’eliminazione di volumi consistenti di rifiuti che oggi vengono inceneriti – termo-valorizzati per il recupero energetico - o conferiti in discariche, quella dei cosiddetti rifiuti o scarti post-industriali, generati dal processo di produzione, all’interno dunque della filiera manifatturiera. Il riciclo di questi scarti è più affine al principio di efficienza e riduzione degli sprechi che le imprese applicano ai processi di produzione.

 

La gestione del riciclo di questi materiali è spesso tutt’altro che banale. In alcuni casi, pensiamo ad esempio agli scarti di filatura il riciclo interno all’azienda può essere semplice, ma nella maggior parte dei casi viene richiesto di processare gli scarti in filiere specializzate nel riciclo – esterne cioè all’azienda che ha generato lo scarto – e il superamento di ostacoli amministrativi e burocratici.

 

Lo stesso status normativo di uno scarto di lavorazione è incerto e richiede iter autorizzativi: si tratta di rifiuto – se ad esempio è conferito a raccoglitori senza una destinazione specifica per il riciclo – o si tratta di MPS (Materie Prime Secondarie), come cambieranno le cose con le, speriamo definite a breve, norme sull’End of Waste in Italia?

 

Diversi studi hanno provato a misurare l’entità degli scarti di materiali tessili generati dalle lavorazioni manifatturiere e i numeri sono molto consistenti.

 

Studi del 2017 svolti da University of Cambridge, EPSRC, IFM e Reverse Resources stimano che durante le fasi di filatura, tessitura e confezione vada perduto da un minimo del 20%, nelle filiere che producono meno scarti, fino ad un massimo di oltre il 45% delle fibre utilizzate.

 

Se a queste cifre, già enormi, aggiungiamo quelle dei capi invenduti o difettati, arriviamo a considerare che da un terzo fino oltre alla metà delle fibre consumate nella filiera tessile finisce come rifiuto, prima ancora di raggiungere il consumatore.

Un giacimento di risorse di cui un utilizzo più efficiente merita di essere preso in considerazione.